di Filippo Gobbo
Attrarre investimenti
Nei momenti di crisi c’è sempre un mantra ossessivo che ronza nella testa delle maggiori figure di rilievo del mondo politico, economico e istituzionale. È una formula magica che viene ripetutamente evocata da Presidenti del consiglio, ministri, sottosegretari, parlamentari, governatori regionali, sindaci e suona allo stesso tempo come un imperativo e una soluzione definitiva: il territorio deve attirare investimenti. A volte, a questa formulazione viene data una piega seduttiva e il verbo cambia, leggermente: bisogna attrarre investimenti Come se il territorio in crisi fosse un amante un tempo appetibile, il cui aspetto è stato reso meno desiderabile dall’invecchiamento. Questa retorica ha maggiormente presa in quei territori, come il Veneto, in cui si percepisce che i fasti di un tempo stanno subendo da quindici anni a questa parte, post- 2008 per intenderci, un inevitabile declino.
Allora c’è bisogno di idee nuove, di un po’ di lifting che rinvigorisca i territori, che li renda attraenti di fronte ai grandi capitali esteri, ormai disinteressati a investire. Già, ma come?
Breve storia delle ZES e delle ZLS
Il modello di riferimento che si sta consolidando da alcuni anni è quello delle Zone Logistiche Semplificate (ZLS), ma affonda le sue radici in un esperimento ben preciso: quello delle Zone Economiche Speciali (ZES) avviato in Cina alla fine degli anni Settanta, con Shenzhen come laboratorio simbolo della trasformazione. In quell’area, politiche fiscali agevolate, deregolamentazione parziale e apertura agli investitori stranieri hanno favorito una crescita industriale rapidissima, destinata poi a diventare un paradigma globale. A tutti gli effetti si è trattato di un esperimento di libero mercato nella Cina comunista che ha trasformato un piccolo villaggio di pescatori in una delle più grandi megalopoli del pianeta nel giro di pochi anni.
Negli anni successivi, lo stesso schema è stato esportato e adattato in contesti molto diversi — dall’Asia sudorientale all’America Latina, dall’Africa fino in Europa (soprattutto Polonia, Irlanda, Portogallo e Lettonia) con risultati altalenanti ma sempre sostenuti dalla medesima promessa: la creazione di spazi “eccezionali” dove il mercato potesse agire con meno vincoli. In Italia, il modello è approdato più tardi, come tentativo di rilancio delle regioni meridionali, attraverso il Decreto legge 91/2017, “Disposizioni urgenti per la crescita del Mezzogiorno” (governo Gentiloni). Da qui all’arrivo delle ZLS il passo è breve. Percepite le ZES come una forma di agevolazione unilaterale verso il Mezzogiorno, le aree industriali del Nord hanno iniziato a richiedere (e ottenere) agevolazioni simili – benché maggiormente vincolate dal punto di vista territoriale. Vengono così istituite nello stesso anno le Zone logistiche semplificate (Zls), tramite l’articolo 1, commi 61-65 della legge di Bilancio 2018 (legge 205 del 2017). L’unico vincolo è che si formino all’interno di zone logistiche caratterizzate da porti. Che si sia trattato di un modo del governo Gentiloni per placare le spinte autonomiste delle regione del Nord non è dato sapere (il referendum consultivo sull’autonomia del Veneto si è tenuto a ottobre 2017), sta di fatto che dal 2017 il progetto delle ZLS sta avanzando in molte regioni settentrionali. Il Veneto risulta un vero e proprio capofila di questa sperimentazione, soprattutto grazie anche alla spinta politica del suo assessore allo sviluppo economico, Roberto Marcato, che è riuscito a istituire la prima ZLS operativa in Italia (DPCM 5 ottobre 2022). Inizialmente battezzata col nome eccessivamente farraginoso di «ZLS del Porto di Venezia-Rovigo», la zona ha subito un primo lifting proprio a partire dal nome: Bluegate, la porta blu che promette agli investitori un accesso privilegiato a un territorio “snellito” da burocrazia e vincoli, pronto a mostrarsi come un hub efficiente, competitivo e attrattivo sul piano internazionale. L’immagine cromatica e il lessico anglofono non sono casuali: rimandano a un immaginario di modernità, apertura e affidabilità, gli stessi tratti che il marketing territoriale cerca di associare alla nuova identità economica dell’area.
Bluegate: ma alla fine, di che cosa si tratta?
Lo abbiamo capito: la ZLS Bluegate rientra all’interno di un piano che vuole rendere il territorio portuale (Venezia) e retroportuale (zona Rovigo, Delta del Po) un’area dove sia più facile e vantaggioso insediare imprese che abbiano l’interesse ad espandersi sul mercato globale, sfruttando soprattutto le cosiddette autostrade blu, ossia i fiumi. La ZLS infatti non promette solo procedure più rapide dal punto di vista burocratico, vantaggi fiscali e infrastrutture dedicate, ma anche la possibilità di usufruire di collegamenti via acqua già esistenti, ma poco utilizzati. Se guardiamo quali sono i territori che rientrano nella ZLS, oltre ai territori portuali, ci sono tutti quei territori del rodigino che si affacciano al fiume Po, come si vede dall’infografica qui sotto.

Ma perché, qual è l’obiettivo sul lungo termine? L’idea è quella, nobile e di prospettiva, di usare per davvero l’idrovia Fissero-Tartaro-Canalbianco e provare a collegare la parte sud della Lombardia con il sistema portuale di Venezia. In altre parole tutto il sistema produttivo che va da Cremona a Mantova, troppo distante per arrivare al porto di Genova, potrebbe giungere più facilmente a Venezia, usando sistemi di mobilità più lenta (fiumi) rispetto a quelli tradizionali (pensiamo al trasporto su gomma), ma sicuramente meno inquinanti (pensiamo che una chiatta può sostituire 45 tir). L’uso del porto di Venezia e del sistema idroviario verrebbe così potenziato in un’ottica sovralocale portando benefici “a cascata” su tutto il territorio. Lo testimonia anche uno studio presentato nel 2024, in cui si dimostra che la filiera idroviaria è cresciuta del +160% dal 2015: oggi vale circa 500 milioni € e potrebbe arrivari a 1,4 miliardi € entro il 2030, con occupazione aggiuntiva e minori emissioni rispetto alla gomma.

Secondo i promotori, non saremmo di fronte a una nuova ondata di cementificazione: la ZLS lavora su aree già produttive o riconvertite e dovrebbe rispettare certi limiti (primi fra tutti la tutela della Laguna di Venezia e del Delta del Po). Inoltre è un piano cui anche gli ecologisti di sinistra non possono criticare. Ma è tutto ora quello che luccica?
Le criticità
Il rischio che la semplificazione diventi deregolamentazione è però dietro l’angolo. In Emilia-Romagna, ad esempio, si sono stanziati circa mille ettari destinati a diventare “aree logistiche libere” (cioè pensate per ospitare attività di trasporto e magazzinaggio) anche in territori non industriali: un escamotage che elude vincoli e distrugge il principio del “zero consumo di suolo” su cui si fonda l’idea delle ZLS. Se la ZLS veneta accetterà definizioni analoghe, potremmo assistere allo stesso inganno. Inoltre, le promesse di semplificazione burocratica equivalgono – in termine tecnici – a una riduzione anche dei termini per fare le dovute valutazione sugli impatti ambientali di insediamenti (o ampliamenti) delle aziende. Se Bluegate riprenderà meccanismi simili senza rafforzare gli enti di controllo (in Veneto, ad esempio ARPAV o Autorità portuali), rischia che queste accelerazioni compromettano verifiche fondamentali. La semplificazione non può essere uno strumento che consente di aggirare le protezioni.
Infine, c’è il tema sociale. Le agevolazioni fiscali e i vantaggi infrastrutturali rischiano di premiare chi ha già capitale e capacità di investimento, lasciando ai lavoratori margini minimi di contrattazione, precarietà e condizioni inferiori. Se Bluegate non imporrà clausole sociali vincolanti nei bandi (salari minimi, contratti stabili, formazione, tutela sindacale), corre il pericolo di rafforzare disuguaglianze anziché ridurle.
Dietro l’immaginario seduttivo della “Bluegate” – la porta blu spalancata agli investitori – si nasconde un nodo di fondo: che tipo di sviluppo stiamo davvero scegliendo per il Veneto?
Le Zone Logistiche Semplificate promettono crescita, ma rischiano di trasformarsi in spazi di eccezione in cui le regole, pur di accelerare i processi, si allentano proprio dove dovrebbero restare più salde: tutela ambientale, pianificazione pubblica, lavoro di qualità.